Cliché ovvero come tu mi vuoi –
di Silvia Altea

28 Luglio 2023

Quando una donna decide di fare un mestiere, svolgere una professione o un’arte, solitamente considerata riservata agli uomini, e soprattutto se lo fa con successo, è considerata diversa.

 

Ma in cosa una donna è diversa? O meglio: la relazione che intercorre tra un uomo e il suo lavoro è diversa da quella che intercorre tra una donna e il medesimo lavoro?

 

Ovviamente no, non c’è nessuna differenza.

 

Una differenza però esiste e va indagata nella rappresentazione femminile e, quindi, nell’immagine che la società  ha della donna e del suo ruolo in un certo momento storico.

 

Oggi siamo ancora circondati da vecchi (ma a quanto pare attuali) cliché che rappresentano una donna realizzata professionalmente o ambiziosa nel lavoro, come poco materna o pudica nelle relazioni sentimentali: una donna che “fa carriera” è generalmente immaginata come spregiudicata nella carriera tanto quanto nella vita di relazione.

 

Accettare serenamente che una donna possa, quindi, svolgere un qualsiasi lavoro in base ai propri meriti ed alle proprie capacità incontra ancora oggi ostacoli di carattere pregiudiziale legati al fatto che è considerata principalmente nel ruolo di genitrice o di caregiver o, comunque, è considerata “debole” ed inadatta alle situazioni stressogene che comporta sostenere una carriera.

 

Perché una donna che lavora ed ha successo è, semmai, immaginata come un uomo nel senso che ne deve  mostrare i principali caratteri (frutto anch’essi di una stereotipizzazione tossica)  tra i quali: essere sessualmente attiva con scarsa attenzione per i sentimenti e la relazione, imporsi anche a discapito delle regole, usare il proprio aspetto per ottenere qualcosa, mostrarsi disinvolta nell’uso e abuso di alcol, fumo, ecc.

 

Poi, certo, c’è anche la donna di successo che però ha un aspetto considerato “non attraente”: per queste persone c’è un consolidato immaginario che le vede sì intelligenti e capaci, ma probabilmente sole, senza una relazione sentimentale.

 

Queste sono sì semplificazioni, ma non così lontane dalla realtà: è un dato di fatto che ancora oggi le donne siano rappresentate e quindi raccontate sulla base di stereotipi di genere e bias ormai, per così dire, “consolidati”.

 

Mi viene in mente Jean-Paul Sartre quando descriveva l’impatto dello sguardo del terzo: esistiamo perché siamo visti e giudicati.

 

Siamo come gli altri ci vogliono.

 

E’ successo in passato e succede ancora oggi – basti pensare all’astronauta e ingegnera Samantha Cristoforetti alla quale un giornalista ha chiesto se avesse mai fatto le faccende domestiche o chi si sarebbe occupato dei figli in sua assenza – con l’aggravante che il dilagare del web e dei social nella vita degli individui rende la questione ancora più complessa e dalle molteplici interpretazioni.

 

Non sfugge alle tentazioni della narrazione al femminile appena descritta la serie televisiva diffusa su una nota piattaforma di streaming e intitolata  La legge di Lidia Poët, creata da Guido Iuculano e Davide Orsini e diretta da Matteo Rovere e Letizia Lamartire. Si legge nella sintetica descrizione del prodotto: “..In questo avvincente dramma storico Lidia Poët indaga su alcuni omicidi mentre lotta per esercitare la carriera forense. Ispirata alla vera storia della prima avvocata italiana…”.

 

Ottimi le attrici e gli attori interpreti – tra tutte la bravissima Matilde De Angelis nei panni di Lidia  Poët – e molto belli i costumi e la fotografia.

 

Una serie che consiglio a tutti di vedere.

 

In quanto avvocata ho guardato questa serie con curiosità e grandi aspettative: intuivo il coraggio di portare sullo schermo e davanti al pubblico generalista una storia non convenzionale, con una protagonista femminile.. e che protagonista! Lidia Poët è stata la prima avvocata italiana.

 

Si è laureata il 18 giugno 1881 con una tesi dal titolo: Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni, un tema impegnativo che già disvelava la determinazione e la consapevolezza della futura avvocata.

 

Dopo la laurea, ha svolto per due anni la pratica forense ed ha superato brillantemente l’esame per  l’iscrizione all’Albo degli avvocati e dei Procuratori legali.

 

Nel 1883 il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino deliberò a maggioranza la sua iscrizione all’Albo, prima donna in Italia.

 

Pur non esistendo una specifica legge che vietasse l’esercizio della professione forense alle donne,  la Corte d’Appello di Torino, su ricorso della procura del Re assimilò la professione forense all’“ufficio pubblico” questo sì, vietato per legge alle donne ed annullò l’iscrizione della Poët.

 

Analoga decisione prese anche la Corte di Cassazione che ribadì la decisione e non consentì l’iscrizione all’Albo.

 

Le donne, insomma, non erano adatte a svolgere la professione, troppo sensibili e impressionabili: come avrebbero potuto difendere al meglio i loro clienti?

 

Per ottenere il riconoscimento del suo status professionale e l’iscrizione all’albo degli avvocati Lidia Poët ha dovuto attendere l’entrata in vigore della legge n. 1176/1919 che stabilì le norme circa la capacità giuridica della donna (c.d. “Legge Sacchi” che abolì, tra le altre cose, la “autorizzazione maritale”) che le consentì, nel 1920, all’età di 65 anni, di iscriversi all’Albo degli avvocati di Torino.

 

L’Avvocata Poët ha davvero fatto la storia ove si consideri che nell’epoca in cui visse (Perrero, 26 agosto 1855 – Diano Marina, 25 febbraio 1949) la partecipazione della donna alla vita politica, economica e sociale era decisamente limitata (non poteva nemmeno votare).

 

Stando ai fatti della sua vita ella appare come una donna molto colta e intelligente, sostenuta dalla sua famiglia, molto rispettata negli ambienti professionali (si laureò a pieni voti con una tesi sulla condizione femminile, svolse proficuamente la pratica forense, superò l’esame di avvocato e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino deliberò a maggioranza la sua iscrizione all’Albo).

 

Lidia  Poët è stata anche un’attivista per i diritti delle donne, ha contribuito a migliorare il sistema penitenziario e tutto grazie alle sue riconosciute capacità. Su consiglio della vedova del noto editore Giuseppe Pomba, si iscrisse al Primo Congresso Penitenziario Internazionale che si tenne a Roma nel 1883. Nel 1890 venne inviata come delegata al Quarto Congresso Penitenziario Internazionale a San Pietroburgo (Russia). Divenuta parte del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale, rappresentò l’Italia in varie parti del mondo come vicepresidente della sezione di diritto.

 

L’ostacolo che si è trovata davanti era, quindi, il noto pregiudizio per il quale le donne sono troppo fragili, sensibili ed emotive per essere all’altezza di svolgere la professione.

 

La sua storia però ci ha insegnato che è con l’impegno, la costanza e la dedizione che si possono superare questi pregiudizi.

 

È da apprezzare e lodare che La legge di Lidia Poët sia stata portata su uno schermo moderno, come quello delle serie, e che si sia voluto puntare su un soggetto nuovo, femminile, straordinario.

 

Tuttavia a mio avviso non si è riusciti ad abbandonare fino in fondo quella narrazione che associa una donna consapevole degli spazi che ha diritto ad occupare con una condotta sessualizzata.

 

Lidia Poët non è stata straordinaria perché andava a letto con più uomini, frequentava oppierie o ostentava allergia alle regole (condotte, a quanto pare, da lei mai poste in essere). È stata straordinaria perché era un’ottima professionista, un’ottima avvocata, come non ha mancato di riconoscere il consesso tutto maschile dell’Ordine degli Avvocati di Torino che deliberò subito la sua iscrizione all’Albo. Ha fatto attivismo, ha scritto molto, ha pervicacemente cercato di cambiare il modo di percepire le donne negli spazi considerati solo “maschili”.

 

Eppure non siamo riusciti ad evitare di immaginarla come un uomo cucendole addosso un’immagine stereotipata.

 

Voglio concludere questa breve riflessione estiva citando le sagge parole di Virginia Woolf tratte da Una stanza tutta per sé (1929):

 

“…sarebbe un gran peccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vivessero come loro, o assumessero il loro aspetto; perché se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come potremmo cavarcela con uno solo? L’educazione non dovrebbe forse sottolineare e accentuare le differenze, invece delle somiglianze? Perché di somiglianze ce ne sono anche troppe…”.

 

 

 

“ (…)…Prima di tutto, io vengo ad esistere in quanto me per la mia coscienza irriflessa. Questa irruzione del me è stata spesso descritta: io mi vedo perché mi si vede, si è scritto (…) lo nella vergogna (in certi casi, nell’orgoglio). Sono la vergogna o la fierezza che mi rivelano lo sguardo altrui e me  stesso al limite dello sguardo; che mi fanno vivere, non conoscere, la situazione di guardato…(…)” Jean – Paul Sartre “L’essere e il nulla”. Il Saggiatore Milano 1970.

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