Torino – Presentazione
FREE THE WORK
– di Brigitta Mariuzzo

23 Dicembre 2022

L’importanza della rappresentazione: mi vedo, quindi esisto.

 

FREE THE WORK è un’organizzazione senza scopo di lucro impegnata ad aiutare le lavoratrici e i lavoratori dell’audiovisivo appartenenti a categorie sottorappresentate a valorizzare la loro professione e trovare un impiego in ambienti egualitari.

 

Il giorno 30 novembre ho avuto modo di assistere alla conferenza in cui Domizia De Rosa, Angelo Acerbi, Gloria Puppi e Hedi Krissane si sono incontrati per presentare FREE THE WORK assieme a Chiara Spagnoli Gabardi, approfondendo le riflessioni sull’importanza della rappresentazione negli ambiti creativi e sui rischi che si corrono quando ce la si pone come obiettivo.

 

Ognuno degli ospiti ha iniziato portando la propria esperienza in quanto parte di una minoranza, intesa in questo caso non nel senso numerico ma nel senso di gruppo di persone distinte dalla maggioranza per via di caratteristiche legate al genere, alla provenienza, all’aspetto, all’orientamento sessuale…

 

Domizia De Rosa è la presidente e co-fondatrice dell’associazione Women in Film, Television & Media Italia. Era presente come rappresentante delle persone appartenenti al genere femminile, e nel suo caso l’essere definita parte di una minoranza è paradossale, in quanto si parla di almeno la metà della popolazione.

De Rosa sente di aver goduto molto dello sforzo che era stato fatto prima di lei per quanto riguarda le discriminazioni di genere sul luogo di lavoro, ma si è scontrata comunque con il fatto che “non tutte le stesse carriere hanno la stessa velocità”, vedendo colleghi con le sue stesse competenze ed esperienza raggiungere posizioni più avanzate della sua in anticipo rispetto a lei. Questo ha indotto lei, e noi, a chiedersi: sono io (che sbaglio, che non mi impegno abbastanza, che non sono competente tanto quanto…) o è il sistema che, per come è costruito, trova modo di ostacolarmi con troppa facilità?

 

Angelo Acerbi organizza il Lovers Film Festival a Torino, il più antico festival sui temi LGBTQI+ d’Europa e terzo nel mondo ed è parte della comunità. Dichiara di non avere mai sofferto fortunatamente di discriminazioni in prima persona, ma di essere stato testimone della sofferenza di altri. Aggiunge che per la sua esperienza nel suo ambiente di lavoro l’80% delle persone appartengono alla comunità LGBTQ+, dunque l’unico fattore discriminante che ha percepito con pesantezza era legato solo alla competenza. Lui ha sempre affermato la sua identità senza remore, ed è felice di rappresentare diversità in un mondo che non la sa accettare.

 

Gloria Puppi, anche lei come Domizia parte di una minoranza paradossale, è sceneggiatrice, insegnante di sceneggiatura e “futurista”, un termine che in Italia è ancora sconosciuto nella sua accezione contemporanea. Potremmo definirla una consulente di future studies, spiega Puppi, e il suo lavoro si basa sulla constatazione che non esiste un solo futuro, bensì molti probabili, desiderabili e possibili. Noi al momento stiamo subendo il futuro creato da altri che stiamo accettando come immutabile, ma non è così. La sceneggiatura per lei è uno strumento per creare il mondo di cui si vuole avere a disposizione e in cui si vuole vivere. Osserva, grazie al suo lavoro da insegnante, il fatto che l’industria cinematografica sia molto chiusa, per cui una bassa percentuale di studenti di sceneggiatura, terminate le scuole, ha modo di mettersi in gioco. Creare opportunità e dare spazio a voci che di solito non ne hanno è un ottimo punto di partenza per aprire e far rifiorire l’industria, nonché porre le basi per un futuro diverso.

 

Hedi Krissane è arrivato in Italia dalla Tunisia nel 1992 per fare l’attore. È riuscito nel suo obiettivo grazie a insistenza e fortuna, però ha riscontrato il problema di vedersi assegnati ruoli da protagonista solo in film multietnici in cui gli venivano date sempre parti “da immigrato” (carcerato, ucciso, criminale…).

Questo lo ha incitato a scrivere in prima persona le storie che desidera per se stesso, tant’è che un suo cortometraggio è arrivato a vincere il Torino Film Festival proprio grazie allo sguardo innovativo e privo di retorica con cui ha affrontato le vicende raccontate.

Ha seguito corsi di regia e sceneggiatura e lavorato come aiuto regista così da produrre altri corti di successo, arrivati anche al Festival di Venezia.

Mi ha colpita molto il fatto che scriva sempre ponendosi come obiettivo il parlare al domani e non all’oggi, poiché ogni giorno si scontra con il fatto che l’Italia sia ancora ferma alla retorica dei telegiornali per quanto riguarda il tema dell’immigrazione, e che ci vorrà del tempo, e molto sforzo da parte delle persone come lui, prima che il nostro Paese si scardini da questa visione.

 

La discussione si è poi spostata su un argomento che per quanto mi riguarda è particolarmente interessante per via delle sue numerose sfaccettature: il tokenismo.

 

Il tokenismo è l’altra faccia della medaglia quando si tratta di inclusività, e consiste nella pratica di sforzarsi a includere persone appartenenti a determinate minoranze solo a livello simbolico e performativo, per dare un’apparenza di inclusività ed equità, quando in realtà a livello essenziale non ci sono cambiamenti sostanziali.

 

Il tokenismo è come una spada di Damocle che pende pericolosamente sull’integrazione, cosa che stiamo riscontrando molto di recente a causa delle nuove politiche delle piattaforme, come Netflix, ma anche dei criteri dell’assegnazione degli Oscar. Ora è richiesto esplicitamente che nei contenuti audiovisivi siano presenti donne, BIPOC, persone appartenenti alla comunità LGBTQ+, persone con disabilità ecc.

 

Può un’imposizione simile però portare davvero a un cambiamento, o è un impegno che non penetra mai e resta solo una facciata?

 

Il tokenismo esiste da sempre poiché la discriminazione esiste da sempre, spiega De Rosa, ed entrambi sono nati proprio nei confronti delle donne, che non essendo mai state numericamente una minoranza rispetto agli uomini sono state la prima categoria a subire la privazione di diritti fondamentali.

 

Se guardiamo al passato, uno dei tanti esempi che si possono fare di tokenismo è Vittoria Colonna, poetessa vissuta nel XVI secolo, che ricordiamo principalmente perché lodata da Michelangelo. Questo significa forse che fosse l’unica poetessa a quei tempi?

 

Sicuramente no, ed è un privilegio poterla ricordare, ma di sicuro non era la sola. Tale riduzione dell’opera femminile avviene in tutti i campi artistici: Artemisia Gentileschi è una delle poche pittrici del passato che vengono citate, eppure spesso viene usata come token per dimostrare che “non è vero che si ricordano solo i pittori uomini”.

 

Inoltre si imputa all’arte femminile di allora di essere inferiore poiché ritraeva soggetti considerati minori come ad esempio le nature morte, tralasciando che alle donne fosse vietato frequentare l’accademia e reso molto difficile se non impossibile applicarsi a soggetti considerati di maggior valore. Non restava loro altro da dipingere quanto accessibile nel loro quotidiano.

 

Acerbi approfondisce il ragionamento portando l’esperienza dei festival del cinema a tema LGBTQ+, all’interno dei quali uno dei problemi principali è il tokenismo interno nello specifico, in quanto ci si sente in dovere di rappresentare tutte le categorie appartenenti alla comunità, che sono in numero alto, ma spesso le storie che si sceglie di trattare non sono altrettanto variegate.

 

Questa necessità di rappresentazione, per Acerbi, è stata subita dall’avanzamento in materia delle culture anglosassoni, arrivando a noi come un’imposizione che porta a compiere scelte più di facciata che di contenuto e così si allontana dall’obiettivo di sensibilizzare chi ancora ha il privilegio di sentirsi estraneo all’argomento.

 

Un altro elemento importante della questione è infatti che questa improvvisa apertura all’inclusività non venga percepita come ciò che è, cioè l’inizio di una strada molto lunga da percorrere per noi, ma come una concessione fatta a una minoranza al fine di spegnere le polemiche.

 

Questo mette a repentaglio tutti gli sforzi fatti, poiché invece di portare a un’apertura di questi gruppi discriminati li rinchiude ancora di più nella loro etichetta. “Serve ancora?” è una frase che si sente dire spesso chi lotta per le minoranze all’interno della società, poiché vi è la convinzione, in chi è poco incline all’ascolto, che una volta ottenuta la visibilità non si abbia più motivo di lamentarsi. Il punto però, sottolinea anche Acerbi, non è l’essere visibili, perché quello lo si è già ormai: l’obiettivo è l’integrazione.

 

Per quanto riguarda l’ambito dei lavori nel cinema nello specifico, Krissane conferma ciò che è già stato detto, spiegando che le produzioni italiane abbiano solo finto di aderire alle disposizione date dalle piattaforme: non è stata fatta infatti nessuna ricerca vera e propria né a livello di troupe, per includere persone appartenenti a ogni gruppo così da arricchire i team di lavoro, né a livello di storie, inserendo personaggi token senza dar loro altro valore oltre a quello di simbolo, così da poter spuntare la casella.

 

È giusto considerare però, dall’altra parte, che per alcune persone costituire un token abbia fatto in modo che avessero accesso a dei mondi da cui altrimenti sarebbero state escluse, nonché consentito una remunerazione e aperto le porte per una carriera.

 

Essere token ha dato la possibilità di occupare uno spazio e istituire un precedente, che per quanto “impuro” aiuta ad accelerare i tempi di consapevolezza. La visibilità dunque è fondamentale, ma deve porsi come obiettivo principale quello di “entrare e aprire le porte a chi è rimasto fuori”, afferma De Rosa. Questo per arrivare alla vera inclusività, che tenga conto del talento piuttosto che della rappresentanza.

 

Porre maggiore attenzione alla rappresentazione (vera, e non di facciata) porterebbe solo giovamento, come è stato dimostrato per esempio dalle reazioni delle bambine non bianche quando è uscito il trailer del nuovo live action de La Sirenetta e hanno scoperto di somigliare ora alla loro principessa Disney preferita. Una tale reazione non è da sottovalutare, anzi, va valorizzata, poiché la necessità di riconoscersi per le persone appartenenti alle minoranze è impellente ma soprattutto essenziale alla costruzione della loro identità e alla percezione delle possibilità che potranno avere nella loro vita.

 

Legato a questo, Puppi spiega che nel metaverso esiste una sorta di talent show, chiamato Alter Ego, in cui i cantanti si esibiscono con un avatar scelto da loro, e la cosa eclatante è che molte persone si presentino come un uomo bianco cis così da evitare discriminazioni e mettere al centro appunto il loro talento e non qualsiasi preconcetto o pregiudizio sulla loro identità. E questo avviene nel metaverso, in cui in realtà la fluidità è incoraggiata e il problema dell’inclusività non si pone quanto nella realtà.

 

Tenendo dunque conto di tutti questi spunti, come possiamo fare in modo che la maggioranza si senta presa in causa e si apra all’inclusività?

 

Durante l’incontro è stato proposto di, in primis,  incoraggiare le istituzioni ad agire con consapevolezza, a cercare storie nuove e diverse che diano voce a chi ha valore e competenza di raccontarci qualcosa di nuovo.

 

In secondo luogo, l’educazione all’informazione, soprattutto a livello giornalistico, è un altro elemento importante: premere sull’utilizzo di un linguaggio appropriato, spostare il centro dal sensazionalismo alla chiarezza ed esaustività dell’informazione che si sta dando. È opportuno aggiungere che al momento investire sull’inclusività porti molto guadagno, poiché crea un circolo virtuoso in cui le nuove storie portano a un’audience più ampia e generalmente più soddisfatta, che desidera averne ancora.

 

In conclusione noi, le nuove generazioni, rappresentiamo dunque una speranza, poiché stiamo già crescendo in un ambiente più aperto e woke. Il rischio che corriamo però è quello di lasciarci travolgere dalla superficialità e dalla rapidità che caratterizzano il nostro tempo, senza riuscire ad andare in profondità nelle cose, a coglierne l’essenza e le sfumature.  In questo forse è proprio lo scambio intergenerazionale ad aiutarci: così come chi è venuto prima può lasciarsi prendere per mano e farsi mostrare da noi stessi la libertà a cui tanto ambiamo, così noi dobbiamo fare tesoro degli insegnamenti di chi, a differenza nostra, ha imparato la lentezza e la pazienza.

 

Ed è così che gli ospiti concludono, donando i consigli che avrebbero voluto ricevere all’inizio delle loro carriere. La parola chiave è: resilienza.

 

È necessario, soprattutto per chi appartiene a comunità marginalizzate, prendere piena consapevolezza del proprio valore, lavorare per farlo crescere, non svalutarsi mai e abbandonare le situazioni in cui si viene svalutati. Questo significa conoscere anche i propri limiti, dunque scegliere di circondarsi e consultarsi con chi ha conoscenze più approfondite delle nostre, poiché il passo dalla pigrizia alla colpa è breve.

 

Bisogna tentare di non farsi scoraggiare dalle porte in faccia che ci portano a pensare di non valere. La consapevolezza e la capacità di non arrendersi sono la chiave di svolta della vita.

 

È importante capire come funziona il sistema all’interno del quale si vuole entrare e osservarne le dinamiche, conoscerlo bene così da poterlo hackerare e trovare il posto per le storie che ora si ha paura di raccontare perché appartenenti a una nicchia.

 

Infine: non dobbiamo mai arrenderci quando dentro di noi siamo certi di ciò che tanto desideriamo raccontare, e che questo aderisce con ciò che gli altri vogliono sentire da noi.

 

Brigitta Mariuzzo è laureata in Contemporary Humanities alla Scuola Holden di Torino. Ha studiato Storytelling, Scrittura Creativa e Sceneggiatura. Vive di storie da sempre e una vita sola non le basta per tutte le cose che desidera essere. Al momento la sua scelta ricade su scrittrice, regista e sceneggiatrice.

Brigitta Mariuzzo è su  LinkedIn.

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