“Non sono più forte del mio sesso?”
– di Silvia D’Anastasio
29 Aprile 2023
Il costo della mascolinizzazione del potere per le donne che aspirano a posizioni di leadership: analisi in performance attraverso il personaggio di Porzia del “Giulio Cesare” di William Shakespeare esplorata nei panni di una detenuta legata alla criminalità organizzata.
Al termine del percorso di Master in Acting presso la Royal Central School of Speech and Drama di Londra, è previsto che gli attori compongano una Critical Reflection accompagnata da una performance, in cui ci si concentra su un personaggio della drammaturgia classica per esplorare un tema della società contemporanea.
Il mio progetto di ricerca ruota intorno al fenomeno della mascolinizzazione del potere e ne indaga il costo per le donne che intraprendono un percorso di leadership.
Per condurre questa analisi sono partita dal concetto di onore nelle donne shakespeariane e mi sono concentrata sul personaggio di Porzia tratto dal Giulio Cesare.
È interessante notare come la figlia di Catone ricorre all’autolesionismo con lo scopo di porsi in una condizione di parità rispetto al marito Bruto, il quale non vuole rivelarle il suo segreto, ovvero la congiura contro Cesare. Porzia utilizza dunque il gesto violento come arma simbolica che la rende competitiva in un campo di battaglia maschile: l’atto di violenza, che collega artificialmente il potere alla mascolinità, la legittima ad avere una voce nel discorso politico.
Grazie all’ispirazione tratta dal lavoro sul Giulio Cesare ideato dalla regista britannica Phyllida Lloyd nel 2013, che ambienta l’opera in carcere esplorando le storie di leadership da un punto di vista femminile e interpreta la sceneggiatura secondo una direzione in cui i principali cospiratori sono essi stessi “prigionieri dell’Antica Roma”, ho ambientato questo personaggio all’interno del contesto della criminalità organizzata italiana presentandola al pubblico come una detenuta, che rivendica un concetto di “onore” strettamente prigioniero delle solide gabbie della comunità patriarcale.
La scelta del tema è avvenuta a seguito di un’esperienza personale all’interno della Casa Circondariale di Vigevano, in cui ho trascorso un mese collaborando per uno spettacolo teatrale con le attrici del dipartimento di massima sicurezza, detenute per reati legati alla camorra.
L’osservazione delle dinamiche di potere in questo gruppo di donne ha aiutato molto il mio percorso di ricerca su genere e leadership, che si è concentrato principalmente intorno ai recenti studi di ricercatrici femministe su linguaggio e stereotipi.
L’autrice Judith Baxter ne Il linguaggio della leadership femminile spiega come la cultura occidentale costruisca un’identità maschile di leadership formando un ostacolo al progresso della carriera delle donne: la nostra società storicamente individua e rappresenta gli uomini come più razionali, competitivi e conflittuali, mentre le donne sono viste più come cooperative e concilianti.
Dal punto di vista della dominanza, il profilo maschile con la sua comunicazione diretta e assertiva è considerato più appropriato per l’idea convenzionale di leadership: le donne carismatiche e competitive dunque sono ancora viste come l’eccezione alla norma maschile.
Un altro ostacolo per la leadership femminile è costituito dal forte stereotipo dell’emotività/ irrazionalità, che attinge alle rappresentazioni comuni delle donne come esseri iper emotivi, irrazionali, intuitivi e premurosi e, di conseguenza, vede gli uomini come razionali, privi di emozioni, logici ed egocentrici.
Ma cosa significa esattamente che le donne sono considerate “più emotive” degli uomini e perché è importante ai fini di questa analisi? Le ricerche sul tema rivelano che uomini e donne non differiscono molto nella misura in cui provano emozioni, ma solo nella misura in cui le esprimono agli altri.
Poiché le persone confondono il controllo sulla manifestazione emotiva con l’influenza “distorsiva” delle emozioni si ritiene che le decisioni e i comportamenti delle donne siano più influenzati dalla loro emotività. Inoltre, poiché esiste una forte convinzione laica che le emozioni impediscano di assumere decisioni e comportamenti efficaci, le donne, di conseguenza, possono essere considerate irrazionali, prive di obiettività, parziali, instabili, imprevedibili e sentimentali.
Sebbene questa forte separazione tra emozioni e pensieri razionali non sia mai stata supportata dalle neuroscienze cognitive, è estremamente radicata nel pensiero occidentale. È probabile che derivi dalla filosofia aristotelica e dalla teoria del “grande uomo”, che proponeva coraggio e carisma come caratteristiche fondamentali per la leadership, come è possibile notare in molti esempi di eroi in letteratura.
Il predominio culturale di questa etica eroica è pienamente rivelato da Shakespeare nella “ferita volontaria” di Porzia alla coscia: ella può legittimare il suo appello a essere la confidente di Bruto solo associandosi agli ideali di virilità, cioè affermando di superare il suo sesso.
Porzia imita la perseveranza degli uomini ferendo se stessa.
Come suggerisce Coppélia Kahn in Roman Shakespeare: Warriors, Wounds and Women (Feminist Readings of Shakespeare), la sua ferita destabilizza il concetto di virtù di genere, la quale viene infatti denaturalizzata e si mostra quindi non come innata nel genere maschile ma come un comportamento appreso.
Porzia prende dunque le distanze dal suo sesso per misurare la propria uguaglianza rispetto agli uomini e rivendicare il suo valore.
Analizzando questo fenomeno – molto comune in contesti nei quali il potere è associato alla virilità – all’interno della criminalità organizzata con lo scopo di dare un’ambientazione specifica alla mia performance, ho ritenuto significative le parole del collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino.
Egli ha affermato che “Cosa Nostra ha sempre considerato il soggetto femminile come un soggetto non virile, né di carattere forte”, che per preservare l’onore del marito è tenuta ad avere un comportamento sessuale “rispettabile” – il che significa verginità prima del matrimonio e castità dopo -, a usare la violenza per vendicare i nemici del marito – o gli assassini – e riflettere quindi il “carattere forte” dei loro uomini. Di conseguenza, per ottenere il potere nel clan ci si aspetta che mostrino carisma e personalità, di solito usando modi e linguaggio violenti e aggressivi. Si richiede loro di essere fredde e calcolatrici, tratti considerati un’eccezione per le donne, che riflettono la forte personalità dei loro uomini. La responsabilità che la donna ha di mantenere l’onore dell’uomo diventa per loro un’autorità violenta.
Come dice Renate Siebert “L’onore che rende questi uomini così orgogliosi, essendo una sfida e un compito per le donne, è anche un vincolo per loro e un ostacolo costante per la loro libertà” (Siebert, 2010).
La scrittrice e attivista per i diritti umani Natasha Walter in Living Dolls: The return of sexism afferma infatti che il modo in cui la mascolinità e la femminilità sono così spesso viste come mutuamente esclusive opera contro le donne che cercano il potere, in quanto secondo uno stereotipo tradizionale, un uomo in cerca di potere esalta la sua mascolinità mentre una donna in cerca di potere riduce la sua femminilità. Questo può essere estremamente negativo per una donna che entra in politica, poiché la fa sembrare poco umana, come se avesse rinunciato a qualcosa di essenziale su se stessa, la sua femminilità (Walter, 2011, 212).
Ho lavorato sulla costruzione di un personaggio costantemente in lotta per calcolare come rispondere, come vestirsi, come parlare e come comportarsi per essere rispettato.
Non si può certo dire che l’aumento di potere in questo caso non porti a una rinuncia fondamentale per una donna e ne limiti dunque la libertà.
Siamo proprio sicuri, allora, di poter parlare di emancipazione, se una donna, per raggiungere una posizione di leadership, deve assumere un atteggiamento che la porta a rinunciare a una parte di sé stessa?
In un mondo che ancora – come nota J. Baxter – deve lottare per una libera concezione della leadership femminile, Porzia rappresenta un simbolo del costo della mascolinizzazione del potere per le professioniste che aspirano a posizioni di leadership, imprigionate in strutture patriarcali stereotipate che individuano un solo tipo di leadership e limitano inoltre delle nuove potenzialità del concetto di “comando”.
Silvia D’Anastasio è un’attrice Teramana diplomata presso la Civica Scuola Di Teatro Paolo Grassi di Milano nel 2018. Nello stesso anno ha partecipato al progetto teatrale di Harambee con una residenza teatrale a Nyandiwa, Kenya, prima di partire per Londra dove ha conseguito il Master in Acting Classical presso la Royal Central School of Speech and Drama. Ha recitato in “Hamlet” diretto da Ben Naylor presso l’Embassy Theatre e nel 2021 ha ideato e creato insieme a Tess Goldwyn l’episodio pilota della web serie “Bridges”. Dal 2021 ha preso parte in vari spettacoli teatrali in Italia tra cui “Worktable” di K. McIntosh presso il Piccolo Teatro di Milano, “La Commedia dell’Inferno” diretta da Marco Lucchesi presso il MAXXI di Roma, “La Troiane” diretto da S. Cannova, “Vanya and Sonia and Masha and Spike” diretta da G. Bozzo e “The Wasp” diretta da V. Cognatti. Sullo schermo appare nella serie “Call My Agent Italia” diretta da Luca Ribuoli e nel 2023 è protagonista del cortometraggio “Mayday” diretto da Simone D’Alessandro.
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