Partire dalla scuola!
Sessismo, ricerche e proposte –
di Chiara Zanini

28 Giugno 2022

Quando si parla del sessismo nel mondo del cinema la mia impressione è che il fatto in sé non dovrebbe destare alcuno stupore, in quanto il maschilismo agisce in modi analoghi in ogni settore lavorativo e in ogni ambito della nostra vita. Non può più essere sminuito riconducendolo a pochi episodi eclatanti, come spesso accade, ma deve essere descritto nel modo in cui la maggior parte di noi lo vive, ossia come sistemico.

 

Il sessismo agisce in modo analogo in ogni settore lavorativo e in ogni ambito della nostra vita: lo dimostrano diversi report in tema di parità di genere che indicano il nostro paese come uno tra quelli in cui la situazione va maggiormente monitorata. Nel Gender Equality Index 2021 realizzato dello European Institute for Gender Equality (EIGE) l’Italia si colloca a metà classifica, mentre si trova al 63° posto nel mondo – tra i peggiori in Europa – nel report sul gender gap pubblicato nello stesso anno dal World Economic Forum.


Per quanto riguarda la disparità di genere in ambito cinematografico, la prima ricerca ad aver messo a tema il sessismo come fenomeno sistemico è probabilmente quella della ricercatrice e docente statunitense E. Ann Kaplan, dal titolo Women and Film: Both Sides of the Camera, che risale al 1983.

 

Se riflettiamo sul fatto che il cinema è nato quasi novant’anni prima tale pubblicazione diventa chiaro perché proporre simili riflessioni o aprire dibattiti sul female gaze per alcuni sia ancora oggi pretendere troppo: risulta faticoso, perché per quasi un secolo le cose sono andate in un certo modo ed è da troppo poco tempo che l’industria ne discute. A qualcuno, diciamocelo, non interessa più di tanto sapere come ognuna di noi viva il proprio essere parte di questa industria.

 

Un’altra lettura illuminante in tema di dati è il report Female professionals in European film production, pubblicato lo scorso dicembre dallo European Audiovisual Observatory sulla base dei dati presenti nel database Lumiere dal 2016 al 2020 relativi ai lungometraggi che hanno avuto una distribuzione theatrical.

 

In sintesi:

 

– Le donne sono meno di un quarto del totale dei registi

 

– Le registe sono state coinvolte, da sole o in collaborazione con altri colleghi, nella direzione del 23% dei lungometraggi europei

 

– Le donne hanno diretto in media meno film degli uomini, e hanno avuto meno probabilità di essere le uniche registe di lungometraggi rispetto alle loro controparti maschili. Di conseguenza, la quota media effettiva di registe per film è stata del 21% tra il 2016 e il 2020, e quella dei team di registi guidati da donne ha rappresentato solo il 20%

 

– Il numero di registe donne è più alta per i film documentari rispetto a lungometraggi live-action e di animazione

 

– L’89% delle registe ha diretto un solo film (rispetto all’83% dei registi uomini) e solo l’11% ha lavorato a due o più film (rispetto al 17% degli uomini). Pertanto, ogni regista donna ha girato in media 1,1 film, contro gli 1,2 film dei registi uomini

 

– Il divario di genere è meno pronunciato in alcuni ruoli: attore / attrice protagonista (le donne rappresentano il 39% della forza lavoro), produttore / produttrice (33% donne), sceneggiatore / sceneggiatrice (27% donne). Diversa la situazione per le direttrici della fotografia e le compositrici (rispettivamente 10% e 9%). In termini più ampi, le donne che ricoprono ruoli chiave nelle troupe cinematografiche tendono a lavorare in team più spesso dei loro colleghi maschi e hanno meno probabilità degli uomini di essere le uniche professioniste a ricoprire un determinato ruolo in un lungometraggio.

 

Anche l’indagine del Consiglio Nazionale delle ricerche promossa nel 2016 da Doc/it, chiamata Gap & Ciak, ha fornito molti spunti di riflessione. Ha mostrato come la storia del nostro cinema sia stata e sia tuttora una storia gerarchica, dominata dagli uomini. Le cause della diseguaglianza di genere coinvolgono le pratiche di ingaggio e le fasi di consolidamento della carriera, e “non è ininfluente nella perseveranza delle professioniste il fatto che per alcuni ruoli manchino dei modelli di riferimento e gli stimoli già in fase di formazione. La discriminazione è innanzitutto di cararettere economico: via via che aumenta il budget o il livello gerarchico nell’industria, diminuisce sensibilmente la presenza femminile”.

 

Sappiamo che molte donne sono state a lungo ‘parcheggiate’ forzatamente in ruoli diversi da quello della regista, come montatrici o sceneggiatrici, perché chi prendeva le decisioni non era troppo convinto che il nome che leggiamo subito dopo il titolo del film dovesse essere quello di una donna, e per molti – di nuovo: guardiamo i dati – è ancora così.

 

Oggi gli incontri per discutere il tema della disparità tra uomo e donna hanno senso solo se ci chiediamo Che fare? e se proviamo ad immaginare insieme cosa davvero potrebbe portare dei cambiamenti nelle realtà in cui siamo attive. Anche se sappiamo bene quale polverone scatenerebbero nel contesto italiano decisioni come quelle che i premi Oscar e BAFTA hanno preso negli ultimi anni.

 

“Bisogna partire dalla scuola”, ci diciamo continuamente.

 

WIFTMI lo sostiene sin dalla sua nascita, sollecitando anche in occasioni pubbliche i/le responsabili degli istituti di formazione, i festival, le istituzioni e tutte le figure professionali che possano agire in merito.

 

Con la stessa motivazione ho partecipato lo scorso anno al convegno organizzato dal Dams dell’Università degli Studi Roma Tre Migrations, Citizenships, Inclusivity. Narratives of Plural Italy, between Imaginary and Diversity Politics con un intervento intitolato Scuole e accademie di cinema e diversity. Primi dati emersi da un’indagine italiana sulla componente docente.

 

Ho voluto infatti contribuire al dibattito chiedendo: chi insegna? E come si insegna a guardare il cinema, che è sia sia arte, sia industria? Molte e molti docenti sono anche cineaste/i e la loro filmografia, il loro sguardo, il rapporto che stabiliscono nel quotidiano con gli/le alunni/e possono davvero ispirare le nuove generazioni, favorendo quel rinnovamento necessario al nostro cinema. Che nelle scuole è ancora oggi un fatto prevalentemente maschile, bianco, cisgender. E non si può negare che se solo una minoranza del personale docente si identifica come donna oppure come persona non-binary ci sono necessariamente delle ripercussioni anche nell’apprendimento delle professioni.

 

Solamente 18 delle 78 scuole e accademie italiane da me contattate hanno accettato di compilare il questionario, costruito attorno ad appena 4 domande. Mi rendo conto che una partecipazione così modesta non consente alla mia indagine di essere ritenuta scientifica, ma quel mutismo selettivo va segnalato proprio perché parla forte e chiaro. Evidentemente svelare certi segreti di Pulcinella potrebbe minare l’immagine della propria scuola e far calare le iscrizioni.

 

Le domande del questionario sono state queste:

 

– Quanti docenti insegnano complessivamente nella Scuola / Accademia?

 

– Quanti docenti sono donne?

 

– Quanti docenti si identificano come persone non binarie?

 

– Quanti docenti della Scuola hanno un background migratorio (migranti o italiane/i di seconda generazione o cittadini al momento privi di cittadinanza italiana)?

 

 

I RISULTATI

 

Su un totale complessivo di 596 docenti delle 18 scuole e accademie di cinema italiane che hanno compilato il questionario anonimo:

 

– 174 sono donne

 

– 1 si dichiara non binary

 

– 16 sono migranti o italiani/e di seconda generazione o cittadini/e al momento privi/e di cittadinanza italiana.

 

 

Accanto a queste risposte, voglio citare quelle di molti uomini con cui ho tentato di affrontare le stesse questioni, oppure il tema della minore partecipazione delle registe in certi festival: “Non spetta certo alla mia scuola / al mio festival realizzare il cambiamento! Rivolgiti altrove”. 

 

Insomma, il caro vecchio benaltrismo. 

 

Voglio però concludere con due dimostrazioni di come protestare non sia inutile. La faccio breve: dal 2016 abbiamo una nuova legge sul cinema, che ha richiesto molte consultazioni nel corso del periodo precedente. 

 

In quell’occasione con altre persone ho creato la campagna Per un cinema diverso, che chiedeva misure concrete per incentivare l’autorialità delle donne e delle persone con background migratorio. I decreti attuativi della legge hanno recepito in parte le richieste, stabilendo criteri premiali per le donne in alcuni schemi di sostegno. Significa che molti film smetteranno di rimanere nel cassetto.

 

Come campaigner però eravamo rimasti delusi per lo scarso interesse nei confronti dell’autorialità dei professionisti e delle professioniste con background migratorio, anche perché la campagna era stata pensata insieme a Suranga Deshapriya Katugampala, Nadia Kibout, Fred Kuwornu, Razi Mohebi, Alfie Nze e Reda Zine, ed era stata sostenuta tra gli altri da Jonas Carpignano. Non avevamo ottenuto nulla. 

 

Ci siamo rivolti allora ai David di Donatello e lo scorso anno le nostre richieste hanno finalmente portato a una modifica del regolamento d’iscrizione ai premi. Così da quest’anno anche un regista migrante o privo di cittadinanza italiana in quanto nato qui da genitori stranieri potrà arrivare a rappresentare l’Italia agli Oscar in qualità di autore di un cortometraggio o di un documentario.  

 

Ne è valsa la pena, no?

 

 

Chiara Zanini è critica, collaboratrice di numerose testate e festival, ricercatrice indipendente, formatrice e addetta stampa. Ha curato con Federica Fabbiani la prima monografia dedicata alla regista francese Céline Sciamma (Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, edita da Asterisco) e ha partecipato attivamente a molte iniziative in tema di parità di genere, tra cui The Purple Meridians, uno dei 4 progetti vincitori della call for sponsorship a tema di Eurimages.

Chiara Zanini è su LinkedIn.

 

 

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