Guardando “Zero” a Milano
– di Nicole Morpurgo

29 Maggio 2021

“Ma te non c’entri col mondo!” esclamava ridendo mio fratello.

 

Ed io percepivo fierezza nell’essere fuori dalla norma. Fierezza raggiunta faticosamente tra emozioni contrastanti, divenuta una mia speciale caratteristica. Ad oggi faccio tesoro di questa affermazione esclamata tra le risate di un’estate d’adolescenza.

 

Sono orgogliosa di essere Nicole. Donna. Nera. Italiana. Tedesca. Haitiana.

 

Insomma: Sono. Esisto. Eppure i libri che si leggono a scuola non parlano di me, ne ho sfogliate parecchie di pagine e non mi sono trovata. Ho visto film in compagnia di amici, loro c’erano, io no. Non pensate che io sia o mi senta sola, tutt’altro, sono in compagnia di tante altre minoranze che nei film e racconti mainstream o non appaiono o ricoprono un ruolo bidimensionale. Ora, nel mio ventisettesimo anno di vita, per la prima volta spero di poter iniziare a vedere una maggiore rappresentazione sugli schermi italiani per trasmettere, a chi fa parte di una minoranza, un senso di appartenenza italiana negato per troppo tempo.

 

Appartenenza e visibilità sono al centro della narrativa di Zero. Omar è un adolescente alla ricerca di se stesso in una società che, o lo scambia per qualcuno che non è, o non lo vede del tutto. La nozione di visibilità risiede nell’immensa potenza dell’opportunità di sentirsi parte di un gruppo e di essere in grado di condividere emozioni positive e negative con chi vive realtà simili alla propria. Essere visibili dà diritto di appartenenza e di senso di se stessi. Esistiamo come singoli perché giustificati dal gruppo. Come me, i protagonisti di Zero vivono in una società che fallisce nel riconoscere la loro presenza rendendoli “invisibili”. Questa invisibilità imposta rende lo stesso Zero un supereroe dal momento in cui, sostenuto e guidato dal suo gruppo di amici, si appropria del concetto di invisibilità e da negativa la rende positiva facendola giocare in suo favore. Credo che la continua lotta e grinta delle minoranze di genere, cultura o religione sia un vero e proprio superpotere.

 

Nonostante il genere dei supereroi funzioni in Zero, secondo me, sottrae tempo alle tematiche della disuguaglianza sociale, del razzismo, dei difficili processi di documentazione delle seconde generazioni di italiani e, soprattutto, da alcuni dei personaggi.  Avrei voluto vedere di più di Sara, la mente del gruppo, è lei che insegna ai ragazzi come trasformare il pensiero in azione. Prima degli eventi che portano Zero a diventare parte del gruppo, lei è l’unica che riesce a crearsi un safe space produttivo nella sala prove chiamato Studio Basement. Ma è anche l’unica restata senza entrambi i genitori, un particolare non da poco dato che tra le tante difficoltà riscontrate dagli altri ragazzi c’è la convivenza con le regole dettate dai propri genitori. Regole legate a tradizioni che a confronto con la vita italiana faticano a stare in piedi. Due volte assistiamo a membri della famiglia che sequestrano documenti o si servono del proprio status per prendere ai figli i propri guadagni. Fatti che rendono lo spazio casalingo uno luogo di scontro tra genitori legati alle tradizioni del paese d’origine e figli costretti a trovare equilibrio e senso di appartenenza tra le tradizioni di due paesi contrastanti.

 

Awa, la sorella di Zero, negli ultimi episodi della serie è invece al centro del cliffhanger più intrigante e va a rubare la scena al fratello che, ironicamente non è più in grado di rendersi visibile.

 

Spero di vedere gli archi narrativi di queste due giovani donne sviluppati in tutto il loro potenziale in una potenziale seconda stagione.

 

Sogno che Zero marchi l’inizio di una narrazione più inclusiva, anche se avrà ancora molta strada da fare per stabilizzarsi. Con molta strada non intendo però diminuire l’immensa importanza che la produzione di questa serie significa per la comunità nera italiana e spero anche per le altre minoranze che vorrei vedere sugli schermi italiani.

 

Da aspirante direttrice della fotografia quale sono un personaggio come Sara, giovane, donna, che sogna la carriera lavorativa, è di estrema importanza. Uscita da un liceo artistico con indirizzo di Grafica a Milano ho vinto una borsa di studio per lo sport, seguita da una borsa academica l’anno successivo. Ho studiato film negli Stati Uniti e ho avuto la fortuna di poter fare esperienza lavorativa sia a Los Angeles che a New York. Oggi continuo a sviluppare le mie conoscenze, in particolare nell’ambito della telecamera e delle luci. L’idea di lavorare come direttrice della fotografia mi intriga perchè è un lavoro che richiede un processo di evoluzione continua.

Questo è anche il modo in cui vedo Zero.

Zero non è meta ma l’inizio di un processo evolutivo.

 

Per la versione in Tedesco  Qui il limk

Per la versione Ingkese Qui il link

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